Le storie, quelle vere, non le scegli tu. Sono loro a scegliere te. Sono lì, in vista. Come la lettera smarrita di Poe non le vedi. Poi, poco a poco, con destino impercettibile, il tuo sguardo ci passa sopra con maggiore frequenza. Involontario, così credi. Poi il ricordo di luoghi visti, di libri letti, è sempre meno casuale. Infine avverti, con stupita certezza, che sono quei luoghi ripercorsi, quelle letture iterate ad averti scelto. Navigante di mari sconosciuti, ti affidi a quella corrente che, dal profondo dell’abisso, ti conduce. E inizi a raccontare gli approdi, le tempeste, le albe di speranza e di disperazione nelle quali ti porta.
La Lituania entrò nell’Unione Europea nel 2004. Il nome evocava nebulose memorie scolastiche: la Prussia Orientale, i Baroni baltici, Thomas Mann. E anche vicine speranze e tragedie: lo studente Romas Kalanta, suicida col fuoco davanti al Teatro di Kaunas il 14 maggio del ’72; la “Via Baltica”, catena umana di seicento chilometri che unì le capitali baltiche chiedendo libertà; la “domenica di sangue” a Vilnius del 13 gennaio 1991 e i quattordici lituani morti nella difesa della Torre della Radio e del Parlamento.
Curiosi di entrare in quel buco nero della storia, prodotto dall’occupazione sovietica, partimmo per Vilnius nel giugno del 2005. Da Milano non c’erano ancora voli diretti. Dovemmo fare una triangolazione su Copenaghen e una notte sulle scomode poltrone dell’aeroporto. Il mattino sbarcammo in un aeroporto piccolo, dalla graziosa architettura di una nostra stazione ferroviaria anni trenta: Vilnius.
Un viaggio senza mete definite, inevitabilmente a conoscere le mete più turistiche. Il magnifico barocco delle chiese, spesso ancora da restaurare; la Collina delle Croci vicino a Siaulai, dove fede religiosa e laica si fondono indissolubili. E anche il parco tematico di Rumsiskeis, vicino a Kaunas. Un concentrato della Lituania antica ricostruito tale e quale. Qui, in una radura appartata, tra le betulle, vedemmo un’incongrua yurta siberiana e, arenato su pochi metri di binario, un inaspettato vagone ferroviario. Un carro bestiame.
Per noi, gente del sud Europa, quel tipo di vagone richiama alla memoria una sola stazione di arrivo: Auschwitz. Ci avvicinammo e il vagone non portava scritte germaniche. Sui fianchi campeggiavano caratteri cirillici e un’incontrovertibile Falce e Martello. Non lo sapevamo, ma quel vagone era la nostra Lettera Perduta.
Negli anni successivi tornammo abitualmente in Lituania. Da Milano i voli diventarono diretti, l’aeroporto era ogni volta più grande e bello; ogni volta trovavamo una chiesa, un palazzo restaurati. In luoghi della memoria incrociammo altre volte quel vagone. Poi una dimentica edizione italiana di un diario, come si dice: ci saltò addosso.
Era il diario di una ragazzina, Dalia Grinkevičiūtė. Fu deportata dal regime sovietico il 14 giugno 1941, con tutta la famiglia, alla volta della Siberia. In quelle terre oltre il Circolo Polare Artico, là dove la Lena si getta nel mar di Laptev, in un incerto e desolato labirinto di isole. Avevamo trovato la nostra Lettera Smarrita e siamo qui a raccontarla.